rosa



piccoli racconti di vita vera



Caduta


Ci sono momenti che capitano nella vita, non te li aspetti.
Sai, quando due individui lontanissimi si incrociano e per un attimo l’uno penetra nella vita dell’altro.
E' è solo istante eppure sai che non lo scorderai facilmente.
  

Mi ero accorta che la situazione non era gestita quindi mi sono fermata e tu eri lì che tentavi di rialzarti mentre il sangue ti colava copioso da uno zigomo. Lei aveva tentato di aiutarti pensando potessero bastare dei fazzoletti. La gente intorno era in evidente imbarazzo e sarà stato a causa del mio piglio deciso che quando ti ho raggiunto tutti se ne sono andati.

Ti eri ripreso benissimo da una caduta che avrebbe messo in difficoltà anche il più terribile ragazzino. Cercavi di sforzarti di raccogliere la tua razionalità conquistata in anni e anni di vita vissuta raccontata dalle rughe sulla tua pelle, eppure qualcosa non tornava perciò ti affidasti a me volentieri, seguisti la mia voce cristallina, i miei pochi e chiari ordini impartiti in modo gentile, ti sei lasciato guidare mentre i tuoi occhi azzurri mi scrutavano alla ricerca di una risposta. Mi chiedesti a che titolo sapevo fare ciò, io ti risposi a nessun titolo, era solo esperienza personale.
L'ambulanza ci regalò del tempo per raccontarci e scherzare, perché tu sapevi quello che c’era da fare e il fatto che io fossi lì a confermartelo ti dava tranquillità.

Così iniziasti a preoccuparti di lei, tua moglie. Non c’era molto tra voi da lasciare all’immaginazione, troppo tempo insieme per non conoscersi nel profondo dell’anima, lasciasti correre il tempo necessario, sapevi tu quanto, e quando venne il momento ti chiamai il numero e ci parlasti. Lì si che ti tradì l’emozione, poi ci parlai anch’io. Lei aveva la voce tremolante e mi sembrò piuttosto sofferente, eppure calma e rassicurata dal solo averti sentito.
Risoluto le dicesti di restare a letto di non preoccuparsi. Ma tanto lo sapevi che lei ti avrebbe raggiunto, anche con i suoi passi incerti. E non mancò molto che la vidi sopraggiungere.
Ti bastò vederla per sentirti ancora più tranquillo, facesti il duro raccontandole gli avvenimenti accaduti, sgridandola per la sua imprudenza e le dicesti di me.
Entrambi seguivate discorsi vostri a senso unico, come spesso capita alle coppie dove uno tira dritto senza ascoltare le parole dell’altro e infine vincesti tu, perché non volevi nessun aiuto, nessun cellulare, nessuna monetina, nemmeno che lei ti accompagnasse in ambulanza.
Anche lei si fermò a parlare con me; nessuno dei due si era perso a parlare dei ricordi del passato, perché nessuno dei due aveva rinunciato a vivere, erano ancora come quando si erano conosciuti, ne sono sicura.

E così mi è venuto in mente tanti anni fa, agli inizi, quando tu ed io ci facemmo una promessa: ma tu sei sempre stato bugiardo!





Sensazioni di Sicilia


Appena scesa dall’aereo ti accorgi che l’aria è diversa, è calda, umida, ti avvolge, quasi la puoi toccare. Ti aspetti di vedere un cielo offuscato dall’umidità invece è di un azzurro intenso, reso ancora più deciso dai raggi del sole che lo scaldano di riflessi giallo arancio. È un emozione dei sensi. L’azzurro del mare si fa blu cobalto in lontananza, fino a diventare smeraldo verso le rocce e bianco cristallino sulla spiaggia accecante di mille pagliuzze dorate. In piena luce i contorni sono nitidi, crudi, appiattiti e senza ombre. Il verde brillante della vegetazione contrasta con l’ocra delle zone aride e polverose. L’olfatto è continuamente sollecitato da mille odori che penetrano nel naso: quello acre della vegetazione bruciata che contrasta con l’odore salmastro del mare. A tratti il gelsomino riempie l’aria rendendola dolce e sensuale, subito dopo il maleodorante puzzo di rifiuti organici in decomposizione.
Percorrendo la strada con l’auto, l’asfalto sciolto sotto il sole impietoso, ti riempie le narici e quasi ti soffoca. Gli sguardi sono scuri come la pece, ti rimandano bagliori curiosi e sornioni, il bianco dei denti risalta nel viso dalla pelle olivastra, capelli neri e lucenti risplendono al sole.
Nelle ore più calde tutto rimane immobile e il silenzio è quasi assordante, mentre i raggi del sole trafiggono perpendicolarmente ogni cosa esistente. Cerchi rifugio all’ombra nella casa.
Bianche pareti accolgono enormi mobili in legno di noce dallo stile barocco, centrini lavorati con pizzi e merletti su ogni tavolo o mensola, divani e poltrone in stile liberty accolgono cuscini ricamati della nonna e pesanti tende a più strati impediscono al sole e ad occhi indiscreti di entrare. Odore di chiuso, di cera per mobili, naftalina, odore di biscotti appena sfornati. Sei indolente e stanca e la camera da letto ti attende fresca e ombreggiata, anche se il sole penetra tra le fessure delle persiane chiuse. Il letto è grande e massiccio alleggerito da un copriletto ricamato in lino bianchissimo, le finestre chiuse attutiscono i rumori delle rare auto che passano nella strada sottostante. La pelle al contatto del lino trova finalmente refrigerio, il viso sprofonda nel morbido cuscino e le narici respirano odore di pulito.  Il silenzio si attenua e i sensi finalmente si assopiscono. 

 


Belarus


Non sempre il viaggio ha in sé l’avventura, il fascino di sensazioni nuove e sconosciute, a volte il viaggio ti immerge nel passato.

L’auto rossa, una piccola utilitaria di ultima generazione, si guidava a fatica per le strade sterrate nella parte vecchia della città di Borisov. Una pioggia mista a neve scendeva discontinua.
Piccole casette di legno colorate coi tetti spioventi delimitavano le strade che ormai somigliavano a fiumi di fango. Pozze stagnanti al posto degli incroci obbligavano a rallentare a passo d’uomo. Faticavo a fare le riprese con la telecamera per i continui sobbalzi dell’auto, enormi buchi obbligavano ad una tortuosa gimcana.

Lasciammo l’auto accostata da un lato e prendemmo a scendere a piedi. Dovetti smettere di riprendere per guardare dove mettevo i piedi. Le scarpe sprofondavano nella melma molliccia mentre rivoli d’acqua creavano profondi solchi nel terreno, lastre di ghiaccio ancora resistevano.

Entrammo in casa. Un piacevole tepore ci accolse. Tappezzerie d’altri tempi dai ricami preziosi alle pareti, un pavimento con lastre di legno disconnesso ricoperto da tappeti. Ci accomodammo su un divano sgualcito e sfondato con davanti due piccole sedie un tavolino tondo.

Qualche vecchia stampa appesa alle pareti e tra un quadro e l’altro i disegni della ragazza più grande, studia arte a scuola.
Un piccolo tavolino porta tv, e da un lato un’enorme casa di bambole piena di piccoli mobili e bamboline.
Un grande spazio per il resto, un grande spazio per camminare, si perché la più piccola ha bisogno di spazio per muoversi, in tutta sicurezza.
Dieci anni, grandi occhi grigio verdi, un sorriso da bambina piena di speranze, un carattere combattivo. La mamma ogni mattina se la carica sulle spalle e la accompagna a scuola.
Ma lei non vuole una sedia a rotelle, vuole un computer!

Ritornammo alla macchina, ripulimmo i piedi nella neve disciolta. Ancora un nuovo percorso ad ostacoli tra fango e ghiaccio ed eccoci arrivati da una nuova famiglia.

Dietro lo steccato colorato di giallo entrammo in un piccolo quadrato di fango che ospitava rottami di varia natura.
La porta si aprì: lastre e assi di legno messe alla rinfusa costituivano il pavimento dell’ingresso, sulla sinistra una piccola cucina di quelle che in genere vediamo abbandonate alla discarica, sporca e piena di ruggine.
Un grosso mastello di plastica, ormai consumato dal tempo, raccoglieva l’acqua dal tetto.
Il tetto di quella baracca altro non era che lastre di compensato fradicio e marcio per lo più incurvato dal peso della pioggia.
Un freddo pungente.

Altra porta e finalmente entriamo in un luogo più caldo, sulla destra seduti sul bordo di un letto quattro angioletti biondi con gli occhi sgranati e sorridenti. Messi lì come una cartolina.
Cinque metri quadrati di cartone e muffa e mobilio fatiscente, letto con le reti sfondate.
Altri due ragazzini nascosti dietro ad una parete divisoria in piedi davanti a un computer. I genitori poco più che due ragazzi e in braccio l’ultima nata.

Al centro della stanza un tavolino imbandito di dolci di zucchero bianchi e rosa, al centro una torta di panna e spumone e biscotti ricoperti di cioccolato e succhi di frutta, e odore di urina e piccoli doni per gli ospiti. C’è da festeggiare, non solo il nostro arrivo ma la nuova nata che oltre alla gioia in famiglia regalerà anche una nuova casa [lei è stata concepita per questo]. 

Ed io che non so come pormi davanti a tutto questo. Non sono benefattrice delle umane sfortune, non sono colei che si priva di tutto e vive in mezzo a chi non ha nulla condividendo il vuoto per riempirlo di calore. Non sono nessuno, non ho risposte e non ci sono domande, in quel momento ci sono solo sorrisi sinceri, testimoni di una stretta di mano ricambiata, un toccarsi per dirsi ti vedo.

Ma sono disarmata adesso e ho bisogno di riflettere. 

Ma quello non era il finale della storia, che non ho mai voluto scrivere.

Lo aggiungo adesso dopo più di vent'anni.

Una piccola vita stroncata ancora prima di poter crescere! Otto corpi in un letto, troppi per un piccolo corpicino. Fine!

 


Ospedale


Ho conosciuto due persone splendide, come lo possono essere solo alcune volte gli esseri umani.
Oggi vi racconterò di P. una bella donna di 86 anni incontrata in Ospedale, sottile come un fuscello, delicata ed aggraziata. Delicata come le donne d’altri tempi ed aggraziata nei modi e nell’abbigliamento, per lei biglietto da visita col quale si relaziona ai suoi simili.

Abituata da secoli di sottomissione a stare al suo posto, un posto che è sempre un passo dietro agli altri, ha un’indole fiera, la fierezza di chi è consapevole di aver ricevuto molto più di altri nella vita, un amore durato 60 anni, un amore pieno di rispetto e gratitudine reciproca. Che poi lei, a differenza di molte sue coetanee, ha avuto anche un ruolo in 30 anni di lavoro al servizio di una importante e famosa azienda.

Nello scorrere lento e noioso delle degenze in ospedale, quello che so di lei, i tratti salienti della sua lunga vita, lo apprendo dalle sue appassionate, arrotolate parole, ricordi che sono foto scattate in alta definizione e mi sorprendo a pensare che ancora una volta il caso fortunato le ha regalato un cervello fine, intelligente e con una rara capacità di guardare ben oltre la superficie delle cose o delle persone. Per questo il suo raccontarsi mi arricchisce di fatti, descrizioni ed emozioni, sentimenti declinati in tutte le sfumature umane. E mi scopro a pensare, col solito pensiero vacuo che deve catalogare le persone: ma guarda questa donnina quanto è sveglia! E quanto è spedita e dimentica del suo problema di saliva e deglutizione che in taluni momenti le fa intrecciare il suono dei suoi racconti con strani gorgoglii.

Legata ad un ideale di perfezione, questo suo gorgoglìo l’ha allontanata dalle persone, troppo dispiaciuta di dover propinare la sua strana salivazione all’interlocutore, che sia esso parente oppure no.

Fa presto la solitudine e l’isolamento a nasconderti dietro insane abitudini che prese singolarmente si risolverebbero in breve tempo ma che trascurate, da più di una persona, tutte insieme portano spesso alla depressione e come nel caso di P. all’anoressia.

È schizzinosa P., lo ripete spesso: non ho mai mangiato il cibo degli ospedali, mi fa schifo, schifo proprio! Ma ora, qui in ospedale è seguita da un’equipe di specialisti che sanno tutto sull’alimentazione umana e gli integratori, di quelli che si utilizzano per la malnutrizione. Sanno tutto sulla nutrizione ma sembra non sappiano nulla sulla comunicazione efficace, nulla sulle le relazioni interpersonali, o forse è solo più di quanto gli è richiesto dal loro lavoro o forse è più di quanto le loro laureate menti possano elaborare.

Che poi, per intenderci, io sono testimone e compagna di P. nella disavventura alimentare da ospedale e confermo che quel cibo fa davvero proprio schifo: schifo a vedersi, schifo ad odorarsi, schifo a mangiarsi!

P. ancorata come uno scoglio al fondale delle sue certezze; non più della grande maggioranza del genere umano, a stento desidera lasciare una strada conosciuta per una sconosciuta. Però, sempre col suo stare un passo dietro agli altri si fida e affida restandone ogni volta delusa. Da una parte la razionalità dei medici ai quali porrei almeno un paio di semplici domande: sapete cosa le piace mangiare e come le piace che vengano cucinati i piatti che ama mangiare?

Dall’altra P. e il suo istinto di sopravvivenza che la guida verso le sue abitudini alimentari adattate alla sua ultima condizione.

Istinto e ragione, con forza uno esclude l’altro e viceversa, eccovi servito sul piatto da ospedale l’incomunicabilità per eccellenza!

Eppure, ogni volta le viene detto che potrà scegliere dal menù ciò che più gradisce. Almeno quello!

E invece no, perché ogni volta che la donna col tablet è lì a dettare il menù per la scelta del giorno lei e sempre a fare qualche esame. Ed ogni volta che le arriva il vassoio la si vede prima guardare perplessa un’accozzaglia di verdure tagliate a cubetti perfetti galleggiare in un’acqua incolore dall’odore nauseante, poi guardare scocciata il successivo vassoio con gli stessi cubetti verdi e arancioni, e poi ancora cubetti e la delusione si trasforma in desolazione, sconforto fino alla rabbia perché P. vorrebbe davvero mangiare.

Affido alla musica il compito di chiudere questa storia
(citazione da Beautiful di Eminem)

“Devi camminare mille miglia
nelle mie scarpe, solo per vedere
com’è essere me
io sarò te, scambiamoci le scarpe
solo per vedere come sarebbe
sentire il tuo dolore, tu avvertirai il mio
entrare nella mente dell’altro
giusto per vedere cosa si prova
a vedere la merda attraverso gli occhi degli altri
ma non permettere ti dicano tu non sia bello!”