sabato 15 febbraio 2020




Ho conosciuto due persone splendide, come lo possono essere solo alcune volte gli esseri umani.
Oggi vi racconterò di P. una bella donna di 86 anni incontrata in Ospedale, sottile come un fuscello, delicata ed aggraziata. Delicata come le donne d’altri tempi ed aggraziata nei modi  e nell’abbigliamento, per lei biglietto da visita col quale si relaziona ai suoi simili. 
Abituata da secoli di sottomissione a stare al suo posto, un posto che è sempre un passo dietro agli altri, ha un’indole fiera, la fierezza di chi è consapevole di aver ricevuto molto più di altri nella vita, un amore durato 60 anni, un amore pieno di rispetto e gratitudine reciproca. Che poi lei, a differenza di molte sue coetanee, ha avuto anche un ruolo in 30 anni di lavoro al servizio di una importante e famosa azienda. 

Nello scorrere lento e noioso delle degenze in ospedale, quello che so di lei, i tratti salienti della sua lunga vita, lo apprendo dalle sue appassionate, arrotolate parole, ricordi che sono foto scattate in alta definizione e mi sorprendo a pensare che ancora una volta il caso fortunato le ha regalato un cervello fine, intelligente e con una rara capacità di guardare ben oltre la superficie delle cose o delle persone. Per questo il suo raccontarsi mi arricchisce di fatti, descrizioni ed emozioni, sentimenti declinati in tutte le sfumature umane. E mi scopro a pensare, col solito pensiero vacuo che deve catalogare le persone: toh, sta donnina quanto è sveglia! E quanto è spedita e dimentica del suo problema di saliva e deglutizione che in taluni momenti le fa intrecciare il suono dei suoi racconti con strani gorgoglii.
Legata ad un ideale di perfezione, questo suo gorgoglìo l’ha allontanata dalle persone, troppo dispiaciuta di dover propinare la sua strana salivazione all’interlocutore, che sia esso parente oppure no.
Fa presto la solitudine e l’isolamento a nasconderti dietro insane abitudini che prese singolarmente si risolverebbero in breve tempo ma che trascurate, da più di una persona, tutte insieme portano spesso alla depressione e come nel caso di P. all’anoressia. 

E’ schizzinosa P., lo ripete spesso: non ho mai mangiato il cibo degli ospedali, mi fa schifo, schifo proprio! Ma ora, qui in ospedale è seguita da un equipe di specialisti che sanno tutto sull’alimentazione umana e gli integratori, di quelli che si utilizzano per la malnutrizione. Sanno tutto sulla nutrizione ma sembra non sappiano nulla sulla comunicazione efficace, nulla sulle le relazioni interpersonali, o forse è solo più di quanto gli è richiesto dal loro lavoro o forse è più di quanto le loro laureate menti possano elaborare.

Che poi, per intenderci, io sono testimone e compagna di P. nella disavventura alimentare da ospedale e confermo che quel cibo fa davvero proprio schifo: schifo a vedersi, schifo ad odorarsi, schifo a mangiarsi! 

P. ancorata come uno scoglio al fondale delle sue certezze; non più della grande maggioranza del genere umano, a stento desidera lasciare una strada conosciuta per una sconosciuta. Però, sempre col suo stare un passo dietro agli altri si fida e affida restandone ogni volta delusa.  Da una parte la razionalità dei medici ai quali porrei almeno un paio di semplici domande: sapete cosa le piace mangiare e come le piace che vengano cucinati i piatti che ama mangiare? 

Dall’altra P. e il suo istinto di sopravvivenza che la guida verso le sue abitudini alimentari adattate alla sua ultima condizione.
Istinto e ragione, con forza uno esclude l’altro e viceversa, eccovi servito sul piatto da ospedale l’incomunicabilità per eccellenza!
Eppure ogni volta le viene detto che potrà scegliere dal menù ciò che più gradisce. Almeno quello! 
E invece no perché ogni volta che la donna col tablet è lì a dettare il menù per la scelta del giorno lei e sempre a fare qualche esame. Ed ogni volta che le arriva il vassoio la si vede prima guardare perplessa un’accozzaglia di verdure tagliate a cubetti perfetti galleggiare in un acqua incolore dall’odore nauseante, poi guardare scocciata il successivo vassoio con gli stessi cubetti verdi e arancioni, e poi ancora cubetti e la delusione si trasforma in desolazione, sconforto fino alla rabbia perché P. vorrebbe davvero mangiare.

Affido alla musica il compito di chiudere questa storia…

“Devi camminare mille miglia
nelle mie scarpe, solo per vedere
com’è essere me
io sarò te, scambiamoci le scarpe
solo per vedere come sarebbe
sentire il tuo dolore, tu avvertirai il mio
entrare nella mente dell’altro
giusto per vedere cosa si prova
a vedere la merda attraverso gli occhi degli altri

ma non permettere ti dicano tu non sia bello!”